L’emergenza pandemica ha stravolto globalmente le abitudini delle persone, costrette a trascorrere la maggior parte del loro tempo online. Una durata virtuale che non si limita ad essere semplicemente connessi con la rete, ma coincide sempre di più con il proiettare la propria identità online: il concetto di presenza virtuale diventa un’esigenza sempre più tangibile, al punto da generare nuove opportunità di business per i fashion designer.
Una delle riflessioni più illuminanti sul tema si è tenuta alla London Craft Week, dove il noto magazine online Dezeen ha ospitato il panel “Textile Intelligence”, che ha visto, tra gli altri, la partecipazione della designer olandese Amber Jae Slooten, co-fondatrice di The Fabricant.
The Fabricant è un brand che produce esclusivamente abiti digitali. Una visione, per ora, radicale, votata ai principi della sostenibilità e della dematerializzazione dell’apparire. Allo stesso modo con cui in un negozio, fisico o virtuale che sia, si acquista un abito, The Fabricant consente di scaricare i modelli creati con CLO3D (uno dei principali software 3D per creare abiti digitali), personalizzarli ed utilizzarli per i propri avatar.
Avatar e presenza digitale
La personalizzazione degli avatar non è un concetto nuovo. Un ambiente virtuale come Second Life è stato capace di generare per diversi anni un business molto radicato. Oggi ritroviamo gli avatar sui social media, nei giochi ed in tutti gli ambienti virtuali in cui veniamo coinvolti loggandoci con un account personale.
I recenti eventi hanno portato nuova linfa ad un sentimento che dal superfluo sta diventando sempre più essenziale, per non dire un prerequisito in termini di presenza online. In tal senso il pensiero espresso da Amber Jae Sloten apre necessariamente gli occhi in termini di opportunità per i brand nei confronti del pubblico più giovane: “I ragazzi sono abituati al concetto di avere un’identità nel mondo reale e, in parallello, molte identità online […] Io sono una millennial, sono cresciuta sia nel mondo fisico che in quello digitale, ma la generazione sotto di noi non coglie nemmeno più la differenza tra fisico e reale“. La natura fluida del digitale si manifesta anche nell’esperienza che ognuno di noi vive, ad esempio, sulle differenti piattaforme: “Le tue personalità digitali possono cambiare in qualsiasi situazione – prosegue la Sloten – per esempio, il tuo profilo su Instagram può essere molto diverso da quello su Linkedin“.

Dal design “on demand” alle piattaforme 3D
Per The Fabricant, il lockdown ha generato un clamoroso aumento nella domanda di abiti digitali, amplificando un’offerta presente ben prima della pandemia. Per far fronte a questa esigenza pratica, dal confezionare digitalmente abiti su misura, l’azienda olandese ha predisposto in via sperimentale una piattaforma di personalizzazione di abiti 3D: Leela, la cui app è stata in breve tempo scaricata da oltre 10.000 persone. Nel momento in cui scriviamo la piattaforma è offline, in attesa di tornare operativa in una versione più stabile ed evoluta.
I numeri del problema, legati ad una intrinseca esigenza di personalizzazione dell’abito, rendono sempre più complessa la creazione puramente sartoriale. Quando ogni abito diventa differente, unico, ed esclusivo, l’unica soluzione per vestire un avatar è legata ad una piattaforma generativa, che consente allo stesso utente finale la creazione sulla base di una serie di modelli preimpostati. Dei metaprogetti, personalizzati in ogni dettaglio per vestire un avatar dotato di caratteristiche molto specifiche.
La lucida follia del digital fashion
Se la base di partenza della moda virtuale coincide con la trasposizione dell’immaginario fisico, nulla vita di andare oltre con la fantasia, plasmando tessuti digitali che nella controparte fisica non sarebbero nemmeno proponibili. Sospesi tra l’atteggiamento provocatorio, la voglia di distinguersi e la naturale curiosità della sperimentazione, è possibile utilizzare materiali come l’acqua, i colori dell’aria, i fiori, la sabbia, particelle elettroniche e qualsiasi “tessuto” possa rivelarsi utile per creare delle composizioni uniche.
Una digital fashion house come The Fabricant ha catturato l’attenzione dei media di tutto il mondo quando ha venduto online l’abito digitale “Iridescence” (vedi immagine di copertina, NdR) per la modica cifra di 9.500 dollari utilizzando una criptovaluta nella blockchain. Una filiera totalmente digitale, dove un valore assolutamente tangibile si associa ad un bene, almeno in origine, immateriale.

Le tre dimensioni del digital fashion
I software che consentono di generare tessuti e abiti digitali stanno acquisendo una popolarità sempre più consistente. Potremmo citare diversi soluzioni per creare abiti in 3D, a partire dal punto di riferimento, CLO3D, sviluppato dalla koreana CLO Virtual Fashion. Lo stesso Blender, software 3D generalista, è sempre più utilizzato anche per produzioni verticali come quelle richieste dal fashion digitale. Ad utilizzarli quotidianamente troviamo milioni di persone in tutto il mondo.
L’esigenza di software 3D nell’ambito della moda digitale si profila sotto vari aspetti, contestuali, successivi ma in ogni caso strettamente correlati con il processo di creazione e personalizzazione dell’abito: dai configuratori 3D interfacciati con l’e-commerce, alle piattaforme in grado di gestire tutte le variabili di processo configurabili, gli ordini e la loro evasione.
Se la produzione esclusivamente virtuale costituisce al momento una grande opportunità nell’ambito del fashion digitale, non dobbiamo ovviamente perdere di vista il grande potenziale della creazione digitale, quello di rendere più efficiente in termini di tempi e costi di sviluppo la produzione reale dell’abito. L’aspetto che interessa tutta l’industria fashion e che sta pilotando la trasformazione digitale dei vari processi.
La produzione interamente digitale ed il digitale per la produzione fisica presentano in ogni caso molte analogie, molti punti in comune, soprattutto se rivolgessimo la nostra attenzione esclusivamente agli aspetti creativi. Il campo delle ipotesi si restringerebbe moltissimo quando l’abito digitale incontra l’esigenza di diventare reale, dovendo necessariamente far fronte ai vincoli imposti dalla produzione. Dal punto di vista dell’utente non varia l’esigenza di personalizzazione, per rendere unico sia il prodotto stesso che l’esperienza di acquisto.
La personalizzazione dell’abito in 3D è dunque consentita da un ecosistema software in grado di risolvere in maniera estremamente capillare tutte le esigenze dei designer, delle aziende confezioniste e dei clienti finali, attori sempre più protagonisti nelle tre dimensioni digitali.
Per approfondire alcuni aspetti fondamentali del fashion digitale, proponiamo la lettura dei seguenti contributi:
- Coronavirus e Virtual Fashion: Eventi e Showroom virtuali
- 3D Fashion: il realismo dei tessuti digitali
- Configuratori 3D per abiti da uomo di Protocube Reply
- Tessuti digitali in 3D di Protocube Reply
Fonti dell’articolo: Dezeen e The Fabricant